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Ma col calzino

c’è poco di più universalmente caratteristico del cattivo gusto. per decenni si è imposto come titolo esclusivo dei poveri tedeschi (poco noti – e a ragion veduta – per il loro stile), facendone scherno durante le visite estive sulle nostre spiagge, a passeggio per le strade delle nostre città e perfino, i più audaci, sui pendii delle nostre montagne. tanto sinonimo di cattivo gusto quanto al contempo di estrema funzionalità, il sandalo col calzino è infatti incredibilmente comodo (se si ha il coraggio di spingersi a tanto), permettendo una buona traspirazione della pianta del piede e prevenendo i cattivi odori che deriverebbero invece dal contatto diretto con il cuoio del sandalo. ma belli no, ecco.

 

questo per quanto riguarda i sandali. poi ci sono le birkenstock …che sono sandali, direte voi; ma no, non esattamente. le birkenstock sono le birkenstock, affermatesi top-of-mind tanto quanto k-way per l’impermeabile e il labello per il burrocacao. duecentotrenta anni ha questo brand, tutt’oggi a gestione familiare, e ancora non manca agli appuntamenti più pressanti richiesti dal suo pubblico, non per ultima la sostenibilità, tema sul quale birkenstock si afferma tra le prime posizioni nel settore calzaturiero internazionale.

 

poi, lo scorso mese, vogue annuncia la collaborazione che non ti aspetti, ovvero quella tra birkenstock e il brand di moda francese dior; e lo fa su questa falsa riga:

 

dior bets big on a birkenstock collab for everyone

welcome to the world of chic gardening shoes, courtesy of dior. in a power move that demonstrates creative director kim jones’s ability to tap into the zeitgeist and make it luxury, the french maison has collaborated with birkenstock.

 

ovvero con estrema enfasi sulla generosa concessione (anzi l’azzardo!) di dior di affiancare la propria immagine a quella dei sandali tedeschi, definiti “ugly-cool” come delle crocs qualsiasi.

ciò che l’articolo di vogue evita di dire è che 1.)  birkenstock dal 2021 è una controllata di lvmh, multinazionale che possiede anche dior, dunque il parere di alex e christian birkenstock sulle collaborazioni potrebbe avere un peso risicato e che 2.) l’unica a fare concessioni, sul piano dell’immagine, in questa partnership se mai è proprio birkenstock e non dior. perché?

 

fermatevi a pensare chi, precisamente, tra le persone che conoscete, indossa delle birkenstock. e ora domandatevi cosa vota. l’indossatore di birkenstock è infatti, in linea di discendenza, un erede del portatore di clarks: mediamente di sinistra. o meglio – fino a qualche anno fa l’indossatore di birkenstock bazzicava i centri sociali, faceva volontariato in senegal e studiava relazioni internazionali. oggi per lo meno il profilo si è leggermente smussato. se dunque il pubblico di dior riceve qui una nuova occasione per fare un salto nel segmento nazional-popolare, a tradire la propria audience è soltanto birkenstock, che si lancia nel prêt-à-porter dei brand di alta moda (parigina, per giunta).

 

il prezzo non è ancora dato saperlo, ma sebbene vogue chiosi un “prodotto per tutti” e dunque punti al segmento di affordable luxury, possiamo stare tranquilli che i sandali della collab non verranno via a poco, specialmente se consideriamo che le birkenstock già partivano da prezzi non popolarissimi: il solo modello boston classico è fissato a centotrenta euro, possiamo immaginare il prezzo dopo che kim jones ci avrà ricamato sopra i suoi fiorellini.

insomma, questo è quello che succede quando i brand storici si fanno acquisire dai grossi gruppi internazionali. nello specifico, lvmh possiede buona parte di tutto il mercato del lusso europeo.

non è né bene né male, bene inteso: così facendo le opportunità per un brand come birkenstock si sono decuplicate, sia dal punto di vista del business, sia di quello creativo. ma ecco, farla passare per una gentile e misericordiosa concessione di christian dior, questo no, non direi proprio.

 

politicamente parlando, davvero non si sa più cosa mettersi ai piedi. e son problemi, eh!

 

Giulio Rubinelli

Creative Director no panic agency

Brand Language Director no panic & act

 

 

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