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Le scrivanie e i banchi di scuola

“Il cambiamento climatico va affrontato come se fosse un virus”

— Andreas Malm, Clima Corona Capitalismo

 

 

Quando oggi prendiamo un aereo conosciamo la procedura. Si va in aeroporto con due ore di anticipo, si mettono in conto le code per i controlli di sicurezza, ci si toglie cintura, orologio, portafoglio, telefono, si estrae il computer dalla borsa e lo si mette su un vassoietto a parte. Non ci poniamo più questioni di sorta, né rimpiangiamo il periodo anteriore al 2001 in cui volare non comportava tutto questo genere di lungaggini. Come non rimpiangiamo un periodo ancora più distante in cui sugli aerei era permesso fumare: l’icona accesa del divieto la accettiamo nel nostro campo visivo come un messaggio privo di significato, come parte integrante del contesto, quanto un’ala e un motore. Ora ci mettiamo anche la mascherina. Presto anche questo obbligo non richiederà più le nostre lamentele, lo faremo e basta, come è giusto che sia.

 

Il terrore che ci ha scossi — noi occidentali — nel settembre del 2001, ha aperto uno squarcio nel nostro immaginario che ha richiesto misure drastiche e immanenti per sentirci più sicuri quando voliamo. Lo stesso è accaduto nel marzo del 2020 (per la cronaca: meno di due anni fa) quando al sorgere di una minaccia abbiamo reagito con la protezione: fa parte della nostra natura di esseri umani, sono riflessi incondizionati che non possiamo contenere. Ce lo dice l’istinto, l’iniezione di adrenalina che governa i nostri riflessi.

 

Il cambiamento climatico è ormai quarant’anni che prova a venire raccontato in ogni modo possibile, senza incontrare mai quella reazione istintiva che abbiamo verso una minaccia imminente. Si è provato col dato scientifico, con la fiction, con il documentario, con la narrazione integrata, con la paura, con la minaccia, con il movimento di massa, con il gesto individuale; eppure niente è ancora riuscito a penetrare le nostre sinapsi e a sobillare la nostra adrenalina per convincerci che sì, il cambiamento climatico è una minaccia imminente e sì, richiede che ci proteggiamo con urgenza, costi quel che costi (se vi è capitato di provare la sensazione di annegare, sapete che siamo disposti a tirarci a fondo chiunque ci si avvicini, si tratti di uno sconosciuto o della propria madre — si chiama panico).

 

Di tutte queste inefficaci immagini, forse la più calzante l’ha trovata un’adolescente svedese, quando ammonì l’Assemblea delle Nazioni Unite: “Voglio che agiate come fareste in un’emergenza. Come se la vostra casa fosse in fiamme. Perché lo è”; questa sì che è un’immagine chiara, immediata, dirompente: una casa in fiamme. È talmente forte che su questa istantanea abbiamo costruito uno degli storici meme del world wide web (oggi un NFT da mezzo milione), questo:

 

 

Ma saremmo davvero capaci di agire secondo coscienza e di guardare alla cosa comune come faremmo con qualcosa o con qualcuno che ci appartiene su un piano affettivo?

Arriva il 2020 e i pensieri del mondo sono più o meno sempre gli stessi, con qualche variazione sul tema (qualche guerra, sporadici attacchi terroristici, l’immigrazione, ecc). Eppure quando il virus bussa alle porte di casa nostra (qualcuno, anche nel marketing, si era sentito in dovere di scherzarci sù, di fronte all’ennesima epidemia esplosa a migliaia di chilometri di distanza), non abbiamo esitato a sbarrarci in casa, a rinunciare all’istante ai nostri più fondamentali diritti costituzionali, a modificare tutte le nostre abitudini di vita — sia private, sia professionali — ad abdicare ai nostri desideri più immediati, alle necessità più impellenti, così come lo Stato non ha indugiato un secondo nello stanziare miliardi sulla punta dell’unghia per tamponare le perdite, per arginare la crisi, per evitare il collasso. Quanto abbiamo veramente esitato prima di reagire, tutti, in tutto il pianeta, difronte alla minaccia del coronavirus? Una, due settimane? E il vaccino. Ignoranti e scrocconi a parte, quanto abbiamo veramente ragionato prima di inocularci un agente infettivo nel sangue per proteggere non solo noi stessi, ma tutta la nostra comunità? Poco. Perché la minaccia (di certo non più tangibile, se ci pensiamo, di una foresta che brucia) era percepita come imminente, prossima o incombente.

Allora cosa c’è di sbagliato nel modo in cui comunichiamo i pericoli (imminentissimi) legati al cambiamento climatico? Se lo chiede, tra gli altri, Andreas Malm, biologo svedese, nel suo saggio “Clima Corona Capitalismo”, edito (di fretta, purtroppo) da Ponte alle Grazie, il cui succo — e si tratta di un’estrema sintesi, spero mi sia concesso — è che il cambiamento climatico va affrontato come un virus. Ovvero: osserviamo con momentaneo distacco tutto quello che abbiamo affrontato come comunità globale nell’arco degli ultimi due anni; siamo stati in grado di reagire unitamente (salvo qualche carogna umana a capo di governi illeciti) a una minaccia che ci riguardava tutti, sacrificando ciò che fino a gennaio 2020 ci sembrava insacrificabile: la nostra libertà. Eppure lo abbiamo fatto, con qualche sospiro certo, ma fondamentalmente senza battere ciglio.

 

Ecco, da questa prospettiva non ci sembra quasi ridicolo che tutta la sollecitudine che abbiamo trovato in noi stessi per proteggerci dal virus non siamo in grado di adottarla per arginare la tangibilissima possibilità di vedere i nostri figli rosolare in un mondo surriscaldato e privo di risorse? Non abbiamo davvero imparato nulla dal lockdown di primavera scorsa?

 

I lockdown, come li abbiamo vissuti con qui, forse non torneranno più, ma la necessità di chiuderci periodicamente in casa — per periodi brevi e mirati — rimarrà (lo sa bene chi abita a Torino, città più inquinata d’Europa, dove almeno cinque giorni l’anno il sindaco esorta i cittadini a rimanere al chiuso e con le finestre sbarrate perché le micro polveri infestano l’ossigeno che respiriamo). Ve la ricordate Venezia durante il lockdown? I canali limpidi, l’acqua trasparente, i pesci sotto il Ponte dei Sospiri. Quella cosa, se non smettiamo temporaneamente di spostarci, di consumare scriteriatamente, di viaggiare, non tornerà mai più. E nessuno è contento di recludersi tra quattro mura, sia chiaro, ma di fronte alla minaccia — lo sappiamo bene, ormai — siamo in grado di farlo, eccome.

 

Allora perché non giocare di anticipo, ora che abbiamo ancora fresca in mente quella sensazione, quella flessibilità che ci ha portati a reagire come un unico corpo di fronte alla minaccia imminente del virus, a elevare un muro contro la mano invisibile della malattia?

 

Dal 2018 gli studenti di tutto il mondo, guidati da Greta Thunberg, scendono in piazza per scioperare e protestare contro la mancanza di iniziativa dei governi sul tema del cambiamento climatico. Oltre a osservarli con tenerezza e compassione, a elogiarli o criticarli (chissà poi su quale base), cosa ha fatto chi ha più di diciannove anni meglio di loro per sollevare un dito, un solo dito, di protesta nei confronti del disastro dilagante? Una qualunque azienda ha mai esortato i propri dipendenti a partecipare ai Fridays For Future? Da quando il futuro è rimasta una prerogativa esclusiva degli adolescenti? A voi non interessa il futuro? Io francamente — e tocco ferro — al di là della progenie, conto di vederlo il 2030. E anche il 2050, se è per questo.

 

Come mai nessuno, e ripeto: nessuno, ha dato un endorsement serio e tangibile ai movimenti di protesta? Perché nessuno è sceso in piazza al fianco dei ragazzi?

 

Di questa mancanza è difficile non sentire il peso sul lungo periodo, preferendo apprezzare lo sforzo meramente creativo di multinazionali fintamente impegnate per il progresso ecologico, aderendo muti a messaggi positivisti e ottimisti da parte di chi sta rovinando il pianeta. O, peggio, accettando di sentirci individualmente responsabili del disastro — un gioco ben architettato dal marketing — per scagionare la ben più gravosa responsabilità di istituzioni e aziende. Quando abbiamo accettato di aver fatto la nostra parte pubblicando la foto di una piantina durante l’Earth Day, abdicando al nostro ruolo civile di comunità e al diritto costituzionale di protestare contro un’ingiustizia.

 

Noi abbiamo scelto di prendere posizione, come azienda oltre che come professionisti, creando Desks For Future: una piattaforma di network per brand e compagnie che intendono passare dalle parole all’azione. L’idea è semplice, ovvero di garantire un giorno di respiro sostenibile alla propria attività e ai propri dipendenti. “Earth Day every Friday” sarà il nostro motto e alle realtà che sposeranno il nostro Manifesto chiediamo di:

 

1. Non richiedere mai ai dipendenti di volare di venerdì;

2. Scoraggiare l’uso dell’auto il venerdì;

3. Garantire il venerdì come giorno fisso di lavoro a distanza;

4. Fornire ai dipendenti gli strumenti necessari per un’attività lavorativa a distanza ottimale;

5. Non effettuare ordini online il venerdì;

6. Aiutare i dipendenti ad evitare l’uso di materiali usa e getta;

7. Incentivare le pratiche responsabili con un sistema di premi;

8. Aumentare la consapevolezza sulle migliori pratiche per una vita quotidiana più sostenibile, attraverso

– la promozione di attività locali nella zona in cui risiedono i dipendenti;

– stimolando il desiderio dei dipendenti a vivere in modo più responsabile;

– condividendo notizie sul cambiamento climatico e sull’innovazione sostenibile.

 

Chiediamo che le scrivanie degli uffici si uniscano alla lotta dei banchi di scuola, affiancando la loro protesta con concretezza, dando un endorsement chiaro e determinato ai loro messaggi, con umiltà e forza. E lo diciamo a scanso di equivoci: questo non sarà uno spazio di greenwashing. Se siete in cerca di facili certificati per attestare la coscienza pulita della vostra azienda, questo non è il posto giusto. Questa piattaforma serve per impegnarsi con serietà per una causa comune che percepiamo come urgente e imminente, per unirci a un movimento di protesta globale fornendo una possibile soluzione che rappresenti un compromesso accettabile a tutte quelle realtà intransigenti che sono convinte che il profitto sia incompatibile con l’impegno ecologico.

 

Perché questo impegno dovrà necessariamente diventare parte integrante della nostra routine quanto un controllo di sicurezza in aeroporto, quanto un divieto di fumo, quanto una mascherina, quanto un vaccino. Il cambiamento climatico va affrontato come un virus, e ora. Alla pandemia abbiamo risposto con lockdown globale e mezzi economici illimitati; come intendiamo continuare a rispondere alla più grande minaccia che il mondo si sia trovato ad affrontare dall’ultima era glaciale? Lavorare da casa un giorno a settimana certo non basterà, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare.
Non dimentichiamo tutto quello che il 2020 ci ha insegnato.
O saranno stati tutti sacrifici vani.

 

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Avanti tutta!

 

 

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