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Il Valhalla del Buon Dipendente

“L’unico modo per evitare di essere depressi 

è non avere abbastanza tempo libero 

per domandarsi se se si è felici o no.”

— George Bernard Shaw

 

 

 

C’è questa cosa a Milano, che io identifico come prerogativa del mio settore (ma che probabilmente appartiene anche ad altre categorie professionali), dell’orgoglio per il troppo lavoro. Nel senso che fa proprio figo poter dire di essere stravolto, stremato, finito, sul limite della crisi nervosa, del distacco della corteccia celebrale, dell’infarto, della morte. Arrivare alla cena con gli amici, trafelato e in ritardo, inviando l’ultima mail, chiudendo ancora l’ultima call con il cliente, di venerdì alle 21, e interrompendo la connessione fare il sospiro più drammatico del mondo come se fosse la prima boccata d’ossigeno dopo una giornata in miniera a sessanta metri sotto terra. Ma ecco, provando un malcelato piacere che sottintende un orgoglio smisurato, un eroismo trionfate, piuttosto che un reale scorno per condurre una vita ai limiti della sopportazione. 

 

 

Si tratta di un modus che non ho avuto la sfortuna di incontrare in altre città in cui ho vissuto, Roma su tutte, dove il lavoro è vissuto su tutt’altre latitudini emotive, al limite del rigetto, un impedimento al raggiungimento della propria pace dei sensi e al godimento di ciò che della vita vale la pena di essere vissuto: il cibo, il mare, il tempo libero. Se a Roma si dovesse mai incontrare qualcuno che ha trovato il modo di campare lavorando il meno possibile (o non lavorando affatto), questi diventerebbe immediatamente un idolo cittadino: “Hai capito Coso? Nun fa ’n cazzo dalla matina alla sera!” A Milano, allo stesso personaggio mai verrebbe in mente di dire pubblicamente di non lavorare, sapendo che questo stato comporterebbe una vergogna sociale insostenibile. È scritto insomma nei geni milanesi che bisogna schiattare di lavoro (i giapponesi, che stanno più fuori di tutti, hanno anche coniato un termine apposito: 過労死 karōshi) per raggiungere una specie di Valhalla del pirla, quanto è intrinseco nel DNA romano che la vita vera è una frittura di mare a Fregene sul calar del sole. E dagli torto, al romano. 

Ma la tossicità della cultura lavorativa — con annesse aspettative, ansie, irrazionali ambizioni, attaccamento a un’azienda che ti riconosce il minimo sindacale — ha raggiunto un punto di non ritorno con il lockdown, durante il quale milioni di persone hanno avuto modo di riscoprire una più compiuta scala di priorità in cui, spoiler, il lavoro non può più occupare il primo posto (soprattutto a fronte – in Italia – di una variazione in negativo tra la media degli stipendi del 1990 e quelli del 2020, fonte: Ocse). Insomma, il verdetto del Big Quit in soldoni: “Anche no”. Anche no lavorare come un ossesso per quattro spicci; anche no sacrificare tempo di qualità con la mia famiglia per un’azienda che è pronta a sostituirmi in ogni momento; anche no perdere la salute mentale per un impiego senza la prospettiva di una pensione dignitosa; anche no regalare un tempo che non tornerà mai più indietro a un mercato del lavoro cinico, distaccato, privo della più basilare empatia umana che è alla base di ogni relazione sana. 

 

E mentre il Belgio dibatte in parlamento la riduzione a quattro giorni della settimana lavorativa (“L’orario complessivo settimanale resterebbe invariato. L’obiettivo è aumentare la flessibilità e rilanciare l’occupazione”, fonte: ilsole24ore), anche nel Belpaese affiorano casi di futuribile avvenirismo in materia di work-life balance, come è il caso della Velvet Media di Castelfranco Veneto:

 

“Alla Velvet il sistema è il seguente: niente orario di lavoro, niente cartellini da timbrare, ferie e permessi quando si vuole. C’è persino la possibilità di venire in azienda di notte. Si chiama “Myway Work“, ed è il prodotto dei consigli dati dalla “manager della felicità”, una psicologa che da qualche tempo affianca il team dirigenziale per favorire il benessere dei dipendenti.” [fonte: repubblica.it]

Modelli da osservare con attenzione, in attesa che il tempo – unico vero giudice in azienda – ce ne riveli l’efficacia. Che il mondo del lavoro sia al momento sotto un’inedita lente di ingrandimento ce lo conferma anche il settore dell’intrattenimento: è Severance (AppleTV) la serie rivelazione degli ultimi mesi: diretto da Ben Stiller, questo psycho-thriller mette in scena la vita all’interno di un colosso farmaceutico, in cui viene impiegata una procedura di scissione per separare i ricordi non lavorativi di alcuni dei suoi dipendenti dai loro ricordi di lavoro. Un’esasperazione di quel work-life balance tanto agognato e che oggi rappresenta la nuova frontiera dell’aspirazione professionale, con tutti i limiti e i pericoli del caso; rappresentando una grande novità, anche il lavoro da remoto è lungi dall’essere controllato e tutelato: se lavorare da casa significa infatti dover garantire reperibilità ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette (“accaventiquattro”, come direbbe la dottoressa Franchi), allora lo smartphone potrebbe rivelarsi per il più feroce degli aguzzini, invece che un complice benevolo. Se rinunciare alla porta dell’ufficio – concepita proprio per relegare i lavoro ad uno spazio e ad un tempo – significa portarsi a letto il lavoro, allora il gioco non vale certamente la candela; e c’è già l’avvoltoio di turno in agguato, pronto a riportare indietro le lancette del nuovo progresso, piuttosto che affrontarne le sfide:

 

“Alle 1.19 del pomeriggio del 31 maggio, Musk avrebbe inviato un memo via posta elettronica agli executive Tesla: «Chiunque desideri lavorare a distanza deve essere presente in ufficio per un minimo (e intendo minimo) di 40 ore settimanali o lasciare Tesla», si legge nella mail.” [fonte: ilsole24ore]

 

È ironico poi che a fare marcia indietro sul fronte del lavoro da remoto sia proprio il sedicente profeta della sostenibilità corporate: la sostenibilità passa anche dal work-life balance, ma non solo quella sociale, anche quella ambientale. Il lavoro da remoto allevia l’impronta di carbonio, come rivelato dal Homeworking Report del think tank Carbon Neutral, vedendo proprio l’Italia tra i primi posti in Europa per abbattimento dell’emissione di anidride carbonica, con una media di oltre 1,8 tonnellate per lavoratore. 

 

(Voleste mai approfondire la relazione tra smart working e sostenibilità, vi invitiamo ad aderire al nostro network Desks For Future, il primo in Italia nel suo genere).

 

Insomma, come vediamo, quello del lavoro è un tema ramificato e complesso che, specialmente durante gli ultimi due travagliatissimi anni, ha subito e continuerà a subire smottamenti significativi. Ed è un tema sul quale i brand ancora non si sono applicati come avrebbero potuto e dovuto: a livello di comunicazione, come di azione, poco o nulla si è visto rispetto a un’opportunità tanto ghiotta e al tempo stesso fugace come il work-life balance. Fino a ieri, almeno, quando Heineken ha deciso di dropparci la bomba:

 

“PUBLICIS CREA PER HEINEKEN ‘THE CLOSER’, L’APRIBOTTIGLIE HI-TECH CHE A FINE GIORNATA CHIUDE TUTTE LE APP DI LAVORO” [fonte: brand-news]

 

 

Come uscito da un film di fantascienza, verrà dunque messo in commercio questo apribottiglie sparato dal futuro, che al momento di stappare una Heineken ti disattiva tutte le app di lavoro sullo smartphone; roba che soltanto Publicis si può permettere anche solo di proporre, senza che il creativo di turno venga trasferito alla neurodeliri. 

“Abbiamo sempre sostenuto i momenti di condivisione con gli altri, e oggi che i confini tra lavoro e tempo personale stanno sfumando, vogliamo stimolare il dibattito sull’importanza di resistere alle pressioni della società, incoraggiando le persone a ridefinire le loro priorità”, ha dichiarato Bram Westenbrink, Global Head Heineken Brand.

Ed è così che uno dei prodotti leader indiscusso del tempo libero, la birra, si fa giustiziere delle ore 18, assumendosi la responsabilità di interrompere le comunicazioni con tutto ciò che si frappone tra noi e, per dirla con Bob Kennedy: “tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”, la famiglia, gli amici, le proprie passioni. Mi concederete anche un breve momento di appreciation per gli amici (si fa per dire) di Publicis, che hanno clamorosamente imbroccato il naming di campagna, con quel brillante gioco di parole tra il “closer” che chiude e il “closer” che avvicina – chapeau. Ma al di là dei complimenti, The Closer è davvero la campagna di cui sentivamo il bisogno, attuale, centrata sul giusto pubblico, bold al punto giusto e attenta alle trasformazioni in atto. 

 

 

Per l’eventuale approdo sul mercato italiano, suggeriamo dunque il sindaco Sala come testimonial, riprendendo quel #MilanoSiFerma sul quale era stato costretto a ripiegare dopo l’annuncio del primo lockdown nel 2020: un momento di svolta epocale nella narrazione che Milano per decenni ha fatto di sé, in controtendenza con il decantato e ormai – si spera – obsoleto “se sta mai coi man in man”. 

 

Perché, come si dice dalle mie parti, a una certa… ops! mi è caduta la penna. 

E ricordiamoci che nessuno sta salvando il mondo. Purtroppo.

 

 

 

 

Giulio Rubinelli

Creative Director no panic agency

Brand Language Director no panic & act

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