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La comunicazione, ancora una volta, forse

Alzi la mano – tra voi, professionisti della comunicazione – chi non ha perso clienti tra fine febbraio e aprile. Food, certo, ma eventi, fashion e lusso, i settori più colpiti dall’inaspettata emergenza: uno stillicidio di disdette e contratti stracciati; oltre al suono delle ambulanze, se nella primavera del 2020 avessimo sorvolato l’Italia, sarebbero state le voci di clienti terrorizzati che vi chiamavano per mollarvi in mezzo alla strada, gli unici rumori che avrebbero attraversato il Paese deserto.

E mentre – ancora una volta – la comunicazione in Italia si è dimostrata la prima delle voci di budget da sacrificare, una riflessione più oculata avrebbe permesso a professionisti, aziende, ma soprattutto istituzioni, di rendersi conto che, forse, la comunicazione era proprio la voce da non cancellare.

Durante una pandemia globale, forse, comunicare correttamente sarebbe stata l’arma più indicata per contenere il contagio: spiegare – bene! – come – e perché! – lavarsi le mani, fare più chiarezza sull’uso delle mascherine e illustrare come – e perché! – rimanere a casa propria avrebbe favorito la lotta al virus, forse, avrebbe potuto salvare molte vite; forse ci avrebbe impedito di sfoderare – ancora una volta – la nostra allure da popolo di allenatori da bar.

La comunicazione ministeriale a fine febbraio si appoggiava ancora a réclame di 30 secondi con Michele Mirabella nel bagno – palesemente – di un ristorante (o comunque non di casa sua, a meno che Mirabella non giri per casa in giacca e cravatta), per poi propendere per un Amadeus – aridaje – isolato su sfondo bianco che – e qui il messaggio topico – ci invitavano a lavarci le mani “spesso” e a non toccarci “mai” occhi, naso e bocca (grazie Mirabella e grazie Amadeus). Poi, comprendendo che le informazioni da comunicare erano effettivamente più dettagliate di così, hanno scelto di ritornare alle care vecchie infografiche (notare l’errore di taglio in montaggio) in stile “Esplorando il corpo umano”, trattandoci – come sempre – da bambini, con quel tono paternalistico (e respingente) che spesso hanno le istituzioni quando ci si rivolgono.

Efficacia: zero virgola meno cento.

La palla è dunque passata a quotidiani che non ci hanno saputi informare (mettendoci, per altro, in più di un’occasione in pericolo – è il caso, ad esempio, del leak che hanno dato il via all’ormai celebre esodo di mezzanotte in Stazione Centrale il 7 marzo), a figure televisive che hanno riproposto imbarazzanti teatrini (la D’Urso che ci spiega dai camerini di Cologno Monzese “come ci si lava le mani” ne é certamente la più illustre rappresentante), fino ad arrivare ai peggiori di tutti gli informatori possibili: i social – e, dunque, alle fake news (a proposito delle quali potremmo sintetizzare: “dove non arriva lo Stato, arriva la Mafia; dove non arriva la comunicazione, arrivano le fake”).

Bene, questo in Italia.

Il 20 marzo – mentre a Bergamo, per intenderci, venivano trasportate nella notte decine e decine di bare sui veicoli dell’esercito – sul sito un.org (poi spostato su talenthouse per eccesso di click) è comparsa una Global Call to Creatives, un brief come difficilmente se ne ricevono in agenzia e dettagliato come poco i comunicatori sono avvezzi a riceverne, in cui, slide per slide, veniva affidato a una comunità professionale su scala globale (il cui numero ad oggi non è calcolato, ma si consideri che solo in Italia nel 2018 le Camere di Commercio hanno registrato un complessivo superiore alle 36.000 attività) il mandato per una diffusione che potesse battere il virus sul suo stesso campo. Niente budget, niente success-fee, niente visibilità, niente KPI, quella delle Nazioni Unite è stata una chiamata alle armi che, implicitamente, ha valso a un intero settore un riconoscimento che tardava ad arrivare da parecchi decenni, da quando – per intenderci – le persone hanno cominciato ad informarsi più sui social media che sui quotidiani nazionali (tanto per fare un esempio).

Insomma, al fermento globale si è aggiunto il fermento del settore della comunicazione che, Ogilvy in testa, ha cavalcato per scrollarsi di dosso l’insopportabile aura di frivoli fessacchiotti e riguadagnarsi invece una dignità smarrita (probabilmente) dal 1941, quando l’indiscusso influencer – lui sì – a livello planetario, Charlie Chaplin, portò nelle sale statunitensi il suo “The Great Dictator”, smuovendo le coscienze a stelle e strisce ed esortandole a intervenire nel conflitto bellico. A proposito di comunicazione.

Insieme ai brand (che hanno riconvertito le loro linee di produzione) e insieme ai privati cittadini (che sono rimasti sigillati in casa per due mesi, con conseguenze ad oggi incalcolabili), sì, anche la comunicazione ha fatto la sua parte, con consapevolezza e dedizione, dal piccolo studio grafico alla grande media company, contribuendo alla “viralità” (adoperiamoci a reperire sinonimi) dei messaggi anti-contagio.

Questo termine – “viralità” – da oltre un decennio in voga nell’ambito della comunicazione, ha trovato finalmente un competitor alla sua altezza: i contenuti hanno cessato per un momento di sfidare sé stessi all’ultima visualizzazione e hanno invece dovuto misurarsi con un atleta di ben altra fibra e spessore, un virus vero e proprio. E mentre medici, personale sanitario, volontari della Croce Rossa curavano, operavano, soccorrevano, assistevano (e tutt’ora curano, operano, soccorrono, assistono), i comunicatori hanno corso fianco a fianco al coronavirus su una pista invisibile che permettesse di raggiungere il pubblico prima del morbo. Una corsa impari che, ad oggi, i comunicatori hanno perso oltre 25.000 volte, solo in Italia.

Oggi possiamo dire, con estrema certezza, che si è persa – sì, ancora una volta – l’occasione di riconoscere la reale importanza del settore della comunicazione, di sfruttarne le conoscenze, di collaborarvi per il bene comune.

Ancora una volta siamo stati soltanto una voce di budget sacrificabile, per l’esattezza la prima della lista.

E mentre il governo lancia le task force in materia economica e sociale (criticatissime, ma non si capisce bene il perché), forse una mini-task force – forse! – sarebbe stato tanto consigliabile affidarla proprio alla materia comunicativa, sì, perché all’alba del subentro della Fase 2, è proprio di chiarezza comunicativa che ci sarebbe il bisogno e sì – stupirà – la comunicazione è un mestiere che richiede competenze specifiche che, di nuovo – stupirà – non si possono improvvisare.

Solo una trentina di anni fa, qualcuno lo ricorderà, il mondo si è trovato ad affrontare un virus su scala globale: l’HIV. In molti ricorderanno lo spot del 1990 commissionato dal Ministero della Salute (e realizzato dalla Armando Testa), in cui i sieropositivi apparivano ammantati di una bizzarra aura viola – sulle inquietanti note di “O Superman” di Laurie Anderson – mentre il voice over ci avvertiva che “più partner si cambia, più rischio si corre” (un po’ come dire che per evitare il COVID potremmo cercare di respirare il meno possibile).

Ecco, ad occhio e croce nel 2020 possiamo fare di meglio (oggi quantomeno non c’è più la DC a revisionare i copy che passano per televisione), ma ciò non toglie che quelle immagini sono rimaste scolpite nella memoria del pubblico in maniera indelebile. Il concept “Se lo conosci lo eviti” è marcatamente di fattura professionale e ha lasciato il segno sul pubblico dell’epoca.

Insomma, a Cesare quel che è di Cesare: come giustamente scegliamo di affidarci al parere di Vittorio Colao in materia economica, perché non affidarci ai massimi esperti di comunicazione su scala nazionale per comunicare, quantomeno, come diamine il governo ha intenzione di riaprile il Paese dopo il 4 maggio? Parentesi: se poi la task force – qualora si decidesse di farla – non fosse composta da tutti ultrasettantenni, magari, qualche Millennial lo raggiungiamo pure…

La comunicazione, oggi, è TUTTO.

TUTTO.

Cerchiamo di scoprirlo prima della prossima pandemia, magari poi #AndràTuttoMeglio

[articolo pubblicato – su commissione – da Agi Factory, maggio 2020]

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